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Tra i riflessi dell’EUR

Può succedere che, improvvisamente nelle stesse ore e come in una sorta di cortocircuito culturale, si venga sollecitati per motivi profondamente diversi e da soggetti totalmente estranei tra di loro, a riflettere su di un unico tema. Al centro di questo singolare gioco di coincidenze è l’ EUR visto non nella sua dimensione urbana o architettonica attuale quanto piuttosto come luogo dell’immaginario o meglio come porta verso la sua identità nascosta o possibile.

Da una parte un invito a partecipare ad una tavola rotonda in occasione di “EUR 42 oggi – Appunti e spunti per una mostra” – Fotografie di Carlo D’Orta a cura di Giuseppe Prode, dall’altra, a distanza di poche ore ed a seguito della telefonata di un amico, vengo messo sulle tracce di un affresco sconosciuto per l’ EUR di Fortunato Depero.

In entrambe le richieste mi è sembrato di cogliere i segni di un destino comune, una sorta di trama latente che rendeva ancora più singolare la coincidenza.

Nella mostra fotografica fatta di una sequenza di bellissime immagini colte tra le pieghe di un Eur che non finisce mai di sorprenderci e che, privato della quotidianità e della presenza umana ed osservato attraverso l’obbiettivo, in un gioco quasi magico di riflessi, diventa “altro”, quasi un oggetto grafico, una composizione dli linee e superfici.

Nello copia dello schizzo di Depero inviatomi dall’arch. Marco Tiella di Rovereto, che mi chiedeva di aiutarlo ad avere notizie dell’affresco che è stato sicuramente realizzato ma di cui si è persa ogni traccia, ho ritrovato le atmosfere del magnifico libro editato dal Commissariato Generale dell’Esposizione Universale di Roma nell’Aprile del 1939 in cui l’ EUR viene descritto come un insieme urbano interamente calato in una dimensione quasi onirica, metafisica, in un paesaggio rigoroso fatto di geometrie di pietra. Il ritratto di una città non destinata agli uomini (che infatti sono completamente assenti nelle illustrazioni del progetto) ma che avrebbe dovuto essere realizzato a misura della “Civiltà Universale”.

In qualche modo, in modo sorprendente, in entrambi i casi, siamo di fronte a documenti che parlano di una dimensione nascosta dell’ EUR, la prima quella intuita da Carlo D’Orta che la ritrova fotograficamente e la svela con un gioco di specchi, l’altra è quella della dimensione metafisica del progetto originario. Come ci dice D’Orta questa dimensione si può ritrovare in alcuni luoghi ed in alcuni momenti della giornata passeggiando nell’ EUR a dimostrazione che non tutto quello che è stato sognato nel 1939 è andato smarrito. I frammenti sparsi di una visione di cui si è perso il senso generale sono ancora presenti, anche se praticamente sommersi da una città che è stata completata seguendo logiche diverse da quelle originali e sono ancora rintracciabili sapendo guardare con gli occhi giusti

Mentre lavoravo su queste mie brevi riflessioni sono improvvisamente riemersi dalla mia memoria frammenti di un ricordo della mia gioventù che sembrano sovrapporsi e confondersi con questa dimensione idealizzata dell’ EUR.

Mi riferisco ad un episodio collocabile, probabilmente, a cavallo dell’inizio degli anni ’50.

La visita al cantiere abbandonato dell’ E 42 era una delle possibili mete della “gita fuori porta” domenicale. Per raggiungerlo bisognava percorrere una strada di campagna che dalle Tre Fontane saliva, tortuosa, sulla collina e terminava (all’incirca dove è Piazzale Marconi) tra le “rovine” di una città fuori dal tempo.

A bordo della Topolino di mio padre, una volta arrivati sul posto, abbiamo percorso, lentamente, le poche strade che erano state tracciate tra edifici largamente incompleti, ma che sembravano annunciare il loro destino di architetture di una città che avrebbe voluto essere imponente. Accatastati a terra, tra l’erba che quasi li sommergeva, giacevano, in modo ordinato, blocchi di travertino semilavorato. Con i miei fratelli, guardavamo con stupore e curiosità questo frammento di città senza uomini, un luogo magico e sconcertante allo stesso tempo, quasi una scenografia fatta per stupire e che, quindi, non sembrava poter essere destinata ad una vita quotidiana.

Sequenze di esedre e di colonnati, quasi già completati nei loro rivestimenti candidi si contrapponevano ad edifici che, nella loro incompletezza, apparivano già corrosi, quasi butterati. In alcuni lotti emergevano dal terreno spezzoni di strutture, residui di fondazioni e di pilastri.

Erano le basi deteriorate di una città che, ai nostri occhi infantili, sarebbe rimasta soltanto una magia, una pura rappresentazione, una promessa non mantenuta.

La storia è andata diversamente ed ha radicalmente trasformato le logiche di quel sogno ricoprendole con la concretezza dell’edilizia del dopoguerra.

Scoprire che le arti (in questo caso la fotografia), sono ancora in grado di vedere le tracce residuali di quei sogni e sono in grado di farle tornare visibili, mi ha profondamente commosso.

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